Se un'operazione di M&A (mergers & acquisitions) fallisce prima della stipula del relativo contratto, le parti – in prima linea l'acquirente – corrono il rischio di doversi assumere i costi legali accumulati durante le trattative e quelli sostenuti per l'effettuazione della due diligence.

Tuttavia, se una parte decide di abbandonare le trattative in violazione del principio di buona fede, questa può essere tenuta a sostenere i cosiddetti broken deal costs o, in altre parole, a rispondere ai danni subiti dalla controparte. La base legale per tale responsabilità precontrattuale è l'istituto giuridico della cosiddetta culpa in contrahendo (CIC). La CIC è stata sviluppata dalla giurisprudenza dei tribunali e dalla dottrina, ma non è stabilita per legge.

La CIC sanziona l'inosservanza degli obblighi che risultano dal rapporto di fiducia tra le parti coinvolte in trattative contrattuali e costituisce, sostanzialmente, l'obbligo di risarcire i danni a condizione che (i) le parti stiano negoziando un contratto, (ii) la parte lesa abbia subito un danno (nesso causale adeguato tra l'azione e il danno), (iii) la parte che ha recato il danno violi un obbligo precontrattuale (violazione del principio di buona fede), e (iv) alla parte che ha causato il danno sia imputabile una colpa.

Da un'ottica procedurale-legale, sussiste una particolarità riguardo all'onere della prova della colpa, in quanto non si applica il principio del Codice civile svizzero (articolo 8), secondo il quale deve fornire prova "chi vuol dedurre il suo diritto da una circostanza di fatto da lui asserita". Difatti, nel caso della CIC, l'onere è invertito e quindi incombe alla parte che ha causato il danno: essa deve provare che non le è imputabile alcuna colpa.

In pratica, l'esperienza ha dimostrato che la probabilità di successo di una domanda di risarcimento di danni basata sulla CIC è alquanto bassa, il che è in particolare dovuto alle difficoltà probatorie in merito alla violazione del principio di buona fede.

Pertanto, per l'acquirente è consigliabile assicurarsi contro il rischio dei broken deal costs in un contratto preliminare (ad es. un memorandum of understanding, una lettera d'intenti o un term sheet), nel quale le parti descrivono l'operazione contemplata e determinano i loro diritti e obblighi per il periodo delle trattative contrattuali (due diligence inclusa). Generalmente parlando, tali accordi preliminari sono considerati dichiarazioni di intenti non vincolanti. Ciononostante, i contraenti hanno la facoltà di convenire esplicitamente l'effetto vincolante di determinate disposizioni. Di regola si tratta delle clausole di confidenzialità, di esclusività delle trattative (cosiddetta no-shop clause), di non sollecitazione del personale "chiave" della società target (per il caso che l'operazione non vada in porto), ma tipicamente anche clausole che riguardano l'assunzione dei costi.

Infatti, al fine di regolare l'assunzione dei costi nel caso in cui l'operazione sfumi prima della conclusione di un contratto di compravendita, le parti spesso pattuiscono una cosiddetta break-up fee, ovvero una penale forfettaria dovuta dal contraente che ha "causato" il fallimento delle trattative contrattuali. Idealmente, i motivi che possono costituire l'obbligo di pagare la break-up fee – ossia i comportamenti che le parti considerano essere "contro la buona fede" – sono formulati nel contratto in maniera dettagliata, per evitare difficoltà probatorie nell'esecuzione del credito.

La CIC, tra l'altro, ha attirato l'attenzione pubblica in relazione al caso Swissair, poiché il Tribunale Federale svizzero, nella sua famosa sentenza DTF 120 II 331, ha sviluppato e generalizzato i principi della CIC riconoscendo la cosiddetta responsabilità fondata sulla fiducia, ovvero un genere di responsabilità ibrida tra quella contrattuale e quella per atto illecito, che permette di imputare ad una parte terza, estranea al contratto, una responsabilità per fiducia suscitata e delusa.

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