Fraus Omnia Corrumpit: la Corte Suprema, nel caso Sharland e Gohil, ha deciso che l'intenzionale omissione di informazioni finanziarie da parte di uno dei coniugi costituisce un vizio essenziale delle pattuizioni economiche degli accordi divorzili e che, pertanto, le sentenze di divorzio anche passate in giudicato affette da tale vizio dovranno andare annullate.

Lo scorso giugno, le signore Sharland e Gohil adivano la Corte Suprema del Regno Unito al fine di conoscere se l'occultamento fraudolento delle effettive condizioni economiche perpetrato da parte dei loro ex mariti ingenerasse un vizio tale da indurre il tribunale a modificare le loro sentenze definitive di divorzio.

Questa la vicenda nel primo dei casi portati all'attenzione della corte: al tempo del divorzio, il signor Sharland risultava proprietario di due terzi del capitale sociale di AppSense Ltd, una società da egli valutata in 50 milioni di sterline e cui, invece, il consulente di parte della moglie aveva attribuito il maggior valore di 75 milioni di sterline (sulla base del fatto che non vi era nessun progetto per una vendita aperta al pubblico risparmio). In corso di causa, precisamente nel luglio 2012, la coppia raggiunse un accordo consensuale ai sensi del quale alla signora Sharland venivano attribuiti circa 10 milioni di sterline tra contanti e beni immobili, oltre a prevedersi il diritto per la suddetta di ricevere dal marito un ulteriore pagamento di 1.7 milioni di sterline e una consistente percentuale sul prezzo dell'eventuale futura vendita delle azioni del coniuge in Appsense. D'altro canto, al signor Sharland erano stati lasciati circa 5.5 milioni di sterline, costituiti dai beni comuni dei coniugi, oltre al diritto di trattenere per sé il saldo del prezzo di vendita delle azioni. Al termine di un lungo e aspro contenzioso, e malgrado la scoperta, in corso di causa, che il marito aveva intenzionalmente omesso di riferire alla corte la propria previa intenzione di quotare la società per un valore di $750 milioni – $1 miliardo, l'accordo venne omologato con decreto del tribunale adito in sede di divorzio.

Naturalmente la signora Sharland si è opposta al decreto, sostenendo che essa non avrebbe acconsentito ai termini dell'accordo divorzile se fosse stata a conoscenza dell'IPO decisa dal marito. Tuttavia, l'opposizione della signora non trovò accoglimento in quanto il giudice di prime cure ritenne che, a prescindere dalla disonestà del rispondente signor Sharland, la corte non avrebbe deciso diversamente, in quanto i termini dell'accordo raggiunto già attribuivano alla ricorrente la gran parte dei beni liquidi nel patrimonio della coppia.

Una differenza non priva di rilevanza tra i due casi, poi riuniti e trattati congiuntamente dalla Corte Suprema, è rappresentata dalla circostanza che l'appello della signora Gohil atteneva ad un decreto di omologa concesso nonostante la ricorrente avesse, prima dei prestare il proprio consenso, esternato dei dubbi in merito al fatto che il marito avesse compiutamente dichiarato la sua situazione finanziaria effettiva. Al momento del raggiungimento dell'accordo, infatti, il signor Gohil aveva dichiarato che il suo patrimonio valeva poco più di 300.000 sterline. Sulla scorta della predetta dichiarazione, la signora Gohil ridusse le proprie protese accettando in via transattiva un assegno divorzile di 270.000 sterline anche se, tra le premesse del decreto di omologa, venne comunque inserito il sospetto avanzato dalla ricorrente, la quale riteneva che suo marito non avesse diligentemente informato la corte della propria effettiva consistenza patrimoniale. A distanza di tre anni, il signor Gohil venne condannato a 10 anni di reclusione per frode e riciclaggio e, alla luce della condanna intervenuta dopo il divorzio, la signora Gohil presentò ricorso per l'annullamento del decreto di omologa.

Il principio di diritto per entrambi i casi trattati era se una sentenza pronunciata in difetto di una completa e veritiera comunicazione delle parti sulla loro situazione economica sia annullabile di per se, ovvero solo nei casi in cui la corte, correttamente informata sul patrimonio dei coniugi, sarebbe addivenuta ad una valutazione sostanzialmente differente da quella proposta dai coniugi.

Decisione 

La Corta Suprema ha deciso a favore di entrambi le mogli, rigettando le decisioni della Corte d'Appello e, per l'effetto, ha riaperto i procedimenti sulla base del fatto che, in entrambe le controversie, la condotta processuale dei mariti convenuti è stata ritenuta fraudolenta e dolosa. 

Commento

Entrambi i casi in commento attengono alla portata e all'interpretazione dell'onere di piena e veritiera divulgazione delle parti. In questo senso, la sentenza aderisce e riconosce l'antico brocardo "fraus omnia corrumpit" (la frode inficia tutto), peraltro non escludendo che anche l'errore privo di dolo possa condurre all'annullamento del decreto di omologa degli accordi patrimoniali tra coniugi in sede di divorzio. Detto ciò, non tutte le fattispecie di omessa comunicazione da parte di uno dei coniugi in causa potrà portare alla suddetta annullabilità. Tale risultato, infatti, dipende dal fatto che la mancata divulgazione abbia avuto un'influenza essenziale rispetto alle determinazioni della corte di merito. Nei casi in cui vi sia il dolo, la parte pregiudicata avrà quasi sempre diritto al risarcimento del danno sofferto e l'onere della prova sarà pertanto in capo all'autore del dolo, il quale potrà difendersi solo provando che l'uomo di media diligenza non si sarebbe fatto influenzare dalla condotta menzognera di controparte, ovvero che la corte, anche debitamente informata, non avrebbe deciso in maniera sostanzialmente differente. Di converso, nei casi in cui si sia verificata un'involontaria mancata divulgazione, la suddetta presunzione non troverà applicazione, con la conseguenza che l'onere di provare che la corte avrebbe deciso in maniera differente da quanto effettivamente in atti graverà sulla parte interessata all'annullamento.

Pur sottolineando che, in materia di diritto di famiglia, il giudice adito abbia l'obbligo preminente di valutare l'equità dell'accordo divorzile raggiunto dai coniugi, la Corte Suprema riconosce il principio che il tribunale dovrebbe incoraggiare le parti a raggiungere un accordo bonario sulle condizioni economiche del loro divorzio. In particolare, Lady Hale, uno dei membri del collegio giudicante, ha affermato nella sentenza Sharland che il tribunale di famiglia è tenuto a considerare con la debita attenzione questi accordi, pur enfatizzando che "il giudice non può emettere una sentenza di divorzio consensuale senza il valido consenso delle parti. Qualora vi sia una ragione tale da viziare il consenso di uno dei litisconsorti, allora potrebbe anche sussistere un giusto motivo di annullamento della sentenza stessa". Una delle predette ragioni è proprio, come nei casi in esame, la circostanza che l'accordo divorzile sia stato raggiunto sulla base di false informazioni.

Nel panorama giuridico attuale si contano numerosi casi di simile omessa divulgazione che attendevano con ansia la pronuncia della Suprema Corte. La sentenza in commento, infatti, potrebbe aver aperto le porte ad una generale revisione degli accordi divorzili in ogni ipotesi nella quale una delle parti abbia, nel corso del procedimento, fraudolentemente omesso o nascosto delle informazioni sulla propria situazione finanziaria. In particolare, la questione potrebbe assumere ancor maggiore rilievo nei casi di soggetti indebitamente indotti a sottoscrivere un atto di acquiescenza rispetto alle informazioni comunicate dall'altro coniuge, stante il fatto che la Corte Suprema, nella sentenza Gohil, ha eloquentemente affermato che un coniuge non può esonerare l'altro dal dovere di fornire alla corte un'informazione completa e veritiera rispetto alla propria situazione personale. Inoltre, grazie alla sentenza in commento, si prevede che in futuro sarà meno macchinoso ottenere l'annullamento di una sentenza di divorzio consensuale. Infine, la sentenza Gohil si segnala per aver fornito agli operatori giuridici istruzioni processuali precise (oltre ad avere sollecitato l'intervento del legislatore in materia) in merito al fatto che il giudice competente a giudicare le istanze di annullamento in siffatta ipotesi sia quello di primo grado piuttosto che la corte di appello.

Dopo la conclusione dei giudizi di rinvio nei casi Sharland e Gohil, sarà interessante verificare se e in che misura le ricorrenti saranno effettivamente riuscite ad ottenere dei termini economici di maggior favore rispetto a quelli già contenuti negli accordi annullati.

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